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ELEA E SOCRATE: BINOMIO VINCENTE PER UN’INDIMENTICABILE USCITA DIDATTICA

  • giornalinoliceoumb
  • 1 dic 2018
  • Tempo di lettura: 3 min

Elea. Sembrava il nome di una località così lontana, così… greca! E invece l’antica Elea, quella che già ai tempi di Cicerone veniva chiamata Velia, è ad un passo da noi, vicino Salerno. Un passo, beh… diciamo circa tre ore di autobus.


Elea fu fondata dai Focei, popolazione stanziata nell’attuale Turchia, che stavano fuggendo dalle invasioni da parte dei Persiani, nel corso del VI secolo a.C. Essi giunsero nell’odierna provincia di Salerno e fondarono una nuova città, il cui nome era dovuto alla sorgente posta alle spalle del promontorio “Hyele”. Nell’ 88 a.C. circa giunsero i Romani, che si integrarono nella società, convivendo pacificamente con i Focei. Elea, dopo essere stata ascritta alla tribù Romilia, diventa un municipio romano, ma con diritto di mantenere la lingua greca e di battere una propria moneta. Essa venne anche rinominata “Velia”. I romani si dedicarono alla costruzione di nuovi edifici e ciò è testimoniato dall’utilizzo di un nuovo materiale costruttivo: la malta.

In passato il mare arrivava fino alla cinte murarie, infatti la città era un grande porto commerciale, secondo solo a Pozzuoli. La ricchezza della città era quindi dovuta prevalentemente ai floridi scambi commerciali a cui partecipava. La popolazione era costituita per lo più da operai, che si dedicavano soprattutto alla costruzione di navi. Esse erano particolarmente veloci in quanto sottili, con uno sperone in ferro in grado di perforare le navi nemiche. Gli abitanti di Velia si dedicavano inoltre alla produzione del “garum”, un insieme di viscere di pesce ed olio, conosciuto oggi come “filatura di alici”: questo alimento era usato come una sorta di energizzante, ed era molto costoso. Molto sviluppate erano anche le attività tessili e vinicole.

Tutte queste informazioni le abbiamo apprese durante il lungo tragitto in autobus verso Velia-Elea, sotto una pioggia battente. Tre lunghe ore, ma sono dettagli se, arrivando, si pensa di calpestare quelle stesse lastre di pietra su cui hanno passeggiato personaggi illustri dell’antichità, come Senofane (che addirittura contribuì alla fondazione della città), Parmenide e Zenone. Un brivido corre lungo la schiena…

In verità, date le avverse condizioni metereologiche, il brivido di emozione ha rischiato di trasformarsi in un brivido di febbre. Ed inoltre l’abbondante pioggia ha infranto il nostro sogno di assistere alla rappresentazione dell’“Apologia di Socrate” in un vero anfiteatro, come duemilatrecento anni fa. Ci siamo perciò rifugiati nel piccolo teatro moderno, al chiuso, dove un bravo attore (dall’accento milanese!?) ha recitato i tre monologhi con cui, come apprendiamo dalla citata “Apologia” di Platone, Socrate tentò, nel 399 a.C., di discolparsi dall’accusa di corrompere i giovani e di adorare divinità diverse da quelle tradizionali. Tentò, ma, nonostante le sue indubitabili capacità dialettiche, con scarso successo. Ed è facile comprendere il perché.

Normalmente un processo come quello intentato da Meleto, un poeta fallito ed invidioso, contro Socrate, si concludeva in una sola giornata e prevedeva che l’accusato tenesse due discorsi: il primo per discolparsi dagli addebiti che gli erano stati rivolti, il secondo, eventuale, al termine della prima votazione, nel caso in cui i cinquecento giudici lo avessero ritenuto, a maggioranza, colpevole, al solo scopo di chiedere la commutazione della pena di morte in esilio.

Grazie al primo discorso Socrate riuscì quasi a convincere, col noto metodo della confutazione, i giurati della sua innocenza: gli mancavano una trentina di voti per essere dichiarato innocente, nonostante avesse, contrariamente alla prassi, rifiutato di far entrare in aula i suoi familiari per implorare pietà. Ma durante il secondo discorso si rivelò il progressista, ovvero – secondo i giudici – il pericoloso sovversivo, che fondamentalmente era: affermò di non voler chiedere alcuno sconto di pena, perché non riteneva di essere affatto colpevole. Anzi: avrebbe meritato un premio per il tempo che aveva dedicato alla città, insegnando gratuitamente l’arte di pensare autonomamente. A fatica i suoi amici lo costrinsero a chiedere che gli fosse inflitta una multa di poche mine, ma ormai il danno era fatto.

Risultato? Una condanna a morte, che, secondo la tradizione, l’attesa della nave proveniente da Delo, quella che ricordava la leggenda di Teseo e del Minotauro e che sospendeva le esecuzioni capitali, fece slittare di più di un mese.

Ma il geniale filosofo riuscì, violando ancora una volta la tradizione, a tenere un terzo, denso discorso dopo la “sentenza”, che potremmo riassumere in “si può uccidere un uomo, non le sue idee”. E così è stato: di Meleto, Anito e Licone non si ricorda più nessuno. Socrate, invece, è uno dei motivi per amare, ancora oggi, la filosofia.


Mariachiara Galdo, III G

Enrica Piazza, III F

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