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ETERNI BAROCCHI

Cioè Napoli che si rinnova e che ritorna.


Immaginiamo Lucullo, sporto dalla stessa terrazza, ad osservare i vedutismi di una città intonsa, tela di seta, delicata. Davanti a sé, Castel dell’Ovo è fiorito da poco, un braccio steso sul mare, la pianura di una campagna irrisolta attorno a sé, terreno da scolpire. Torniamo in noi, sulla stessa terrazza veterana di tempi, e non è più Napoli il mondo che ci giace davanti. Non una soltanto.

Tela di velluto, ci avvolge il tepore di una città vissuta, anche troppo, da menti e idee diverse che ne scrissero la storia. Monte Echia mutato in Pizzofalcone; Quartieri Spagnoli mutati in via Toledo; greci mutati in romani, in Borbone, in una specie non ben definita di uomini assorti e visionari, destinati a divenire i padroni del mondo, ma forse no. Del resto, Napoli non ebbe mai bisogno di altra grandezza che le mani gentili racchiuse in un Gemito irrequieto; il soffitto prospettico e barocco tra gli angeli di una chiesa dimenticata. Non pretese meraviglie meno eleganti di un cortile al civico 46, anonimo e incantato, e stupì dal principio ogni miscredente con la sottigliezza di un’arte nuova e originale: la più unica che rara, mitica commistione sociale.

Così, strade su case, palazzi su ritratti, vetri su marmi, Napoli si è forgiata da sé, inquieta tela di colore. Non basterebbe una chiesa, a descriverla, non un Plebiscito, un’epoca o un quartiere. Essa vive nelle menti che mano a mano la ripensano e nella maraviglia di un nuovo che comunque, mai, non la avrà.


Adriana Catapano, V F

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